Esiste un “diritto al Suicidio”?

La Consulta alle prese con i dubbi di costituzionalità sull’art. 580 c.p.

Era il 24 ottobre dello scorso anno quando la Corte Costituzionale venne investita per la prima volta della questione di legittimità costituzionale della norma che sanziona l’aiuto al suicidio (l’art.580 del codice penale, appunto) sollevata dalla Corte d’Assise di Milano nel corso del processo a carico dell’esponente radicale Marco Cappato, imputato per avere agevolato, avendolo accompagnato presso la clinica svizzera abilitata a somministrare trattamenti eutanasici, il suicidio di DJ Fabo.

I Giudici milanesi, anziché esprimersi nel merito dell’incolpazione formulata nei confronti dell’esponente politico, decisero di rivolgersi alla Consulta chiedendo l’espunzione dall’Ordinamento della fattispecie incriminatrice all’art. 580 c.p, tacciata di essere per un verso affetta da palese irragionevolezza (laddove parifica sul piano sanzionatorio due condotte – quella di chi istiga e/o rafforza il proposito suicidario del soggetto e quella di chi si limita ad agevolarne l’attuazione senza influire sulle determinazioni dello stesso – caratterizzate all’evidenza da diversa gravità), e per altro verso  contrastante con l’art. 117 Cost. in relazione ai plurimi principi eurounitari[1], cogenti per il giudice nazionale, nettamente orientati a riconoscere il diritto del singolo a decidere la fine della propria esistenza (sì che la condotta di chi agevoli la realizzazione di simile proposito, trattandosi di decisione attinente all’esercizio di un diritto, non potrebbe assumere alcuna valenza penale).

Con grande sorpresa il Giudice delle Leggi all’udienza del 24 ottobre 2018 decise di sospendere il giudizio di legittimità costituzionale sullo “aiuto al suicidio”, e indicò al Parlamento il compito di elaborare entro un anno una specifica disciplina in tema di fine vita allo scopo di colmare i vuoti in materia, ed in particolare di dettare soluzioni normative in grado di contemperare il principio di inviolabilità della vita con altre situazioni parimenti meritevoli di tutela costituzionale (ad esempio: il diritto del malato all’autodeterminazione terapeutica)[2].

Come a tutti noto, il tempo concesso al Parlamento per legiferare nei termini richiesti dall’ordinanza della Corte è trascorso vanamente, ed a fronte dell’inerzia di quest’ultimo la Consulta tra qualche giorno (l’udienza è fissata per il 24 settembre p.v.) dovrà per forza di cose pronunciarsi sull’incidente di costituzionalità sollevato dai Giudici milanesi.

E qui sta il bello.

Cosa farà la Corte Costituzionale?

Deciderà di confermare la legittimità della previsione normativa del delitto di “aiuto al suicidio” (nella duplice forma dell’istigazione e della semplice agevolazione materiale) confermandone la piena rispondenza ai parametri costituzionali?

Oppure dichiarerà la norma incriminatrice illegittima perché non più rispondente al c.d. diritto vivente, sul presupposto che il sistema riconosca già al singolo il “diritto di morire” (e non possa dunque essere perseguita penalmente la condotta di chi agevoli l’esercizio di simile “diritto”).

Nessuno ovviamente lo può dire con certezza. Possiamo tuttavia già ora scorgere tra le righe delle motivazioni poste a base dell’ordinanza n. 207/2018 quale sarà l’orientamento che verosimilmente il Giudice delle Leggi assumerà sulla questione.

Nella recente ordinanza della Consulta è dato leggere – infatti – che:

  • l’incriminazione dell’aiuto al suicidio ex art. 580 c.p. si rivela costituzionalmente legittima tutte le volte in cui assolva al compito di tutelare la vita delle persone vulnerabili, particolarmente esposte (per la giovane età o per situazioni di particolare fragilità psichica) a subire condizionamenti che possano porre in pericolo l’inviolabilità della loro esistenza. In altri termini risponderebbe a parametri di ragionevolezza mantenere la punibilità dell’aiuto al suicidio – nella forma dell’istigazione e/o del rafforzamento del proposito autolesivo in soggetti psicologicamente labili – laddove la norma assolva ad una funzione politico – criminale di tutela delle “parti deboli”;
  • la stessa fattispecie incriminatrice, alla luce della progressiva evoluzione del pensiero giurisprudenziale (soprattutto) sovranazionale, cessa di essere costituzionalmente legittima tutte le volte in cui rischi di precludere l’esercizio di libertà fondamentali pure meritevoli di tutela da parte dell’Ordinamento al pari dell’inviolabilità dell’esistenza umana.

Il riferimento evidentemente qui è alla situazione dei soggetti malati terminali, ai quali deve essere garantito il diritto di por fine a sofferenze ritenute intollerabili sulla base di una scelta lucida e consapevole.

L’aiuto a morire (l’aiuto al suicidio) prestato in favore di chi, nelle situazioni dette, si determini a por fine alla propria esistenza – sul piano penalistico – verrebbe dunque ad essere “scriminato”.

Da notare che le conclusioni della Corte Costituzionale, per nulla sorprendenti, non si discostano poi molto dall’orientamento di fondo già espresso alcuni anni or sono dalla giurisprudenza di merito (si pensi al caso Welby o al caso Englaro) e, soprattutto, da quanto già prevede la recente normativa sulle disposizioni anticipate di trattamento.

Nulla di nuovo, dunque, in quest’ultima tappa del cammino di progressiva erosione del “diritto alla vita”, anche se affermare che l’ordinamento statuale abbia ormai riconosciuto – e/o sia in procinto di riconoscere – un generale diritto al suicidio potrebbe forse apparire affrettato.

I “distinguo” che la Corte Costituzionale pure segnala nella propria ordinanza parrebbero rappresentare un temporaneo argine all’assolutizzazione di simile “diritto”.

Quel che, in attesa della decisione definitiva della Consulta, si può invece serenamente affermare è che il principio di indisponibilità della vita umana – quel principio che, lungi dall’essere frutto di dogmatismo religioso, è invece figlio dell’evidenza naturale che la vita è un dato, un dono non mio e un bene comunque – pare definitivamente tramontato nella coscienza sociale e – dunque – in quella giuridica.

Avv. Carlo Tremolada

 

[1] L’art. 2 ed 8 della CEDU, ad esempio, sempre secondo il significato che a dette norme è stato progressivamente conferito dall’evoluzione ermeneutica della giurisprudenza di Strasburgo. A ben vedere – infatti – l’art. 2 CEDU non parla affatto di pretesa libertà dell’individuo di decidere modalità e tempi della propria fine, ed anzi proclama, al contrario, il “diritto alla vita”. Il fatto è che nel tempo l’assolutezza di siffatto principio è andata progressivamente erodendosi, assumendo il significato di “diritto ad una vita dignitosa” (con la conseguente libertà dell’individuo di porvi fine allorchè, per l’appunto, si reputi che a causa di una grave malattia e/o altre situazioni fortemente invalidanti, l’esistenza cessi di essere dignitosa).

[2] L’ordinanza della Consulta alla quale si fa qui riferimento è la n. 207/2018, e recita testualmente: “…. La Corte ha rilevato che l’attuale assetto normativo concernente il fine vita lascia prive di adeguata tutela determinate situazioni meritevoli di protezione costituzionale e da bilanciare con altri beni costituzionalmente rilevanti. Per consentire in primo luogo al Parlamento di intervenire con un’appropriata disciplina, la Corte ha deciso di rinviare la trattazione della questione di costituzionalità dell’art. 580 c.p. all’udienza del 24 settembre 2019. Resta ovviamente sospeso il processo a quo”

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