Riflessioni Post-Referendum sulla sentenza del TAR Lazio n.3452/2005.

21 Giugno 2005

 

Ci pare utile pubblicare come editoriale del nostro sito questa articolate riflessioni in risposta al commento della sentenza del TAR Lazio, 3452/05, pubblicata sul n. 23 di “Guida al Diritto” dell’11 giugno 2005 (Pag. 176). Riteniamo interessante, infatti, continuare a porre la nostra attenzione su questa sentenza perché, nella sua articolata motivazione, presenta diversi punti che certamente non possono essere sottovalutati proprio ora che, a seguito dell’esito negativo della consultazione referendaria del 12 e 13 giugno, la Legge 40/04 con le sue Linee Guida continuerà a trovare applicazione nel nostro ordinamento.

Preliminarmente, va fatta qualche precisazione sul primo motivo di ricorso, ritenuto giustamente non meritevole di positiva valutazione da parte del Giudicante.

In realtà, non è affatto vero che il provvedimento in casu sorvola sulla costituzione della Commissione atta a coadiuvare il Ministero nella elaborazione delle Linee Guida, laddove il TAR stesso ha espressamente affermato che una simile facoltà può ben rientrare nella discrezionalità dell’Amministrazione (tanto più che la L. 40/04 non pone né espressamente né implicitamente alcun divieto in tal senso); né può condividersi il giudizio di chi afferma che il criterio di una simile di scelta sia stato di natura politica: dalla lettura complessiva delle Linee Guida appare, piuttosto, che il nostro Legislatore, dovendo porre la sua attenzione su questioni problematiche di natura interdisciplinare, ha tentato di valorizzare il più possibile il profilo scientifico, unitamente a quello etico e a quello giuridico, proprio servendosi di una Commissione di esperti ad hoc.

Per quanto poi concerne la lamentata omessa allegazione dei pareri acquisiti, va detto che le Linee Guida hanno un carattere «provvedimentale e precettivo», né poteva essere diversamente dato che secondo l’art. 7, co. 2, della L. 40/04 esse devono contenere «l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita». Pertanto, le Linee Guida non si pongono né come un mero atto interno all’Amministrazione né come una normativa dal carattere prettamente organizzatorio che afferisce, invece, all’autorizzazione regionale, di cui devono essere dotate le strutture (private e pubbliche) che praticano le tecniche della PMA. Di conseguenza, va chiarito il contenuto della Legge 241/90 (richiamata dal ricorrente), in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi, che stabilisce all’art. 3, co. 1, che “ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato”; tuttavia, il medesimo comma fa salve le ipotesi previste al comma successivo, laddove espressamente stabilisce che “la motivazione non è richiesta per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale”.

Ad ogni modo, la doglianza del ricorrente non ha ragione di esistere, proprio perché dalle Linee Guida, risulta che non solo è stato “sentito l’Istituto Superiore della Sanità circa l’indicazione delle procedure e delle tecniche di procreazione medicalmente assistita”, non solo è stato “acquisito il parere del Consiglio Superiore di Sanità, espresso nella seduta del 14/7/04”, ma che ci si è anche avvalsi di un supporto medico-scientifico, nel tentativo di tenere conto, realisticamente, di tutti i fattori in gioco. In realtà, anche con l’ausilio della Commissione di esperti sotto ogni profilo scientifico (non solo di “tecnici”) si è potuto:

  • procedere ad una netta distinzione e definizione tra la sterilità e la infertilità, in piena aderenza al dettato normativo della L. 40/04, e ciò contrariamente a quanto affermato nel punto n. 3 del ricorso. In vero, proprio nella Introduzione delle Linee Guida è stata ben specificata la differenza tra “sterilità” e “infertilità”, laddove si dice che “la sterilità, almeno nella donna , andrebbe distinta dalla infertilità, intesa come incapacità di condurre la gravidanza fino all’epoca della vitalità fetale. Nell’uomo, invece, essendo il concetto di aborto ovviamente estraneo alla patologia della riproduzione, i due termini vengono largamente usati come sinonimi”. E sempre le Linee Guida, nel tentativo di approfondire ulteriormente tali concetti – che pur scientifici acquisiscono una valenza giuridica, dal momento in cui si cerca di descrivere il vero dinamismo di questa realtà, partendo proprio dal dato dell’esperienza –, precisano che una coppia può essere considerata “infertile quando non è stata in grado di concepire e di procreare un bambino dopo un anno o più di rapporti sessuali non protetti, mentre è sterile la coppia nella quale uno o entrambi i coniugi sono affetti da una condizione fisica permanente che non rende possibile la procreazione […] il termine ‘sterilità’ si riferisce, quindi, ad una condizione più grave e comunque assoluta di “infertilità” riguardante la coppia e non il singolo membro di essa”;
  • alla stregua di ciò, individuare e meglio definire l’attività medico-scientifica. Ingiustamente il ricorrente afferma, al punto n. 4, che il richiedere la certificazione dello stato di infertilità dagli specialisti del centro di fecondazione assistita implica “il pretendere da un medico una certificazione impossibile”, così da metterlo in condizione di non poter esercitare la libera scelte di cure e terapie proprie della professione medica”. Invece, da una lettura più attenta della norma in esame, si evince chiaramente che proprio le Linee Guida, così come formulate, pongono il medico in condizione di poter adeguatamente esercitare la propria, specifica attività professionale (valorizzando, pertanto, la peculiare professionalità di ciascuno) laddove si richiede, che, nel momento in cui una coppia accede alle tecniche della procreazione medicalmente assistita:
  1. vi sia un’anamnesi accurata ed un corretto esame obiettivo della coppia;
  2. si svolga la ricerca, in modo sistematico ed efficace, delle cause della infertilità/sterilità così da non comprimere a priori il diritto della persona di ciascuno ad essere padri e madrijure naturae (che, nella dinamica umana, si pone evidentemente come un diritto assolutamente prioritario, unitamente e parimenti al diritto del figlio di avere genitori naturali);
  3. se la relativa certificazione dello stato di infertilità può essere effettuata da ogni medico abilitato all’esercizio della professione, la certificazione dello stato di infertilità perl’accesso alle tecniche di riproduzione assistita deve essere effettuata dagli specialisti del centro e, precisamente, per le patologie femminili dal ginecologo e per le patologie maschili dall’andrologo o dall’urologo con competenze andrologiche;
  4. si affermi e si rispetti il cd. principio di gradualità, al fine di evitare il ricorso ad interventi con un grado di invasività tecnico e psicologico più gravoso per i destinatari (secondo ilprincipio della minore invasività): in tal senso, ai sensi dell’art. 4, co. della Legge 40/04, spetta al medico, secondo scienza e coscienza, definire la gradualità delle tecniche tenendo conto dell’età della donna, delle problematiche specifiche e dei rischi inerenti le singole tecniche sia per la donna sia per il concepito, del tempo di ricerca della gravidanza e della specifica patologia diagnosticata nella coppia, il tutto nel rispetto dei principi etici della coppia stessa.

 

La nozione giuridica di “embrione” …

Significativo è poi il ragionamento che ha fatto la sentenza in merito alla seconda censura posta dal ricorrente circa l’omessa definizione del termine embrione da parte delle Linee Guida. In merito, il Giudicante ha così precisato:

  1. le Linee Guida, in conformità alla Legge 40/04, hanno ad oggetto l’indicazione delle procedure e delle tecniche di PMA e, pertanto, non competeva a tale provvedimento definire la nozione di embrione;
  2. in ogni caso, va detto che l’art. 13 della L. 40/04, coerentemente all’art. 1 della medesima legge, riconosce al concepito (melius all’embrione) titolarità giuridica al pari di ogni persona vivente; tale riconoscimento è, evidentemente, un segno di alta civiltà giuridica (il primo caso concretamente attuato dal Legislatore nell’ambito dell’ordinamento giuridico italiano), tenuto conto che già Tertulliano affermava poco meno di duemila anni fa che “homo est qui futurus est” e che perfino l’art. 1 del Codice Civile del Perù esordisce con l’affermare che “la vita umana comincia con il concepimento: il nascituro è soggetto di diritti per tutto quanto vale a suo favore”;
  3. sebbene, guardando agli orientamenti emergenti nella letteratura scientifica, non sembra possibile identificare la data di nascita dell’embrione (né soccorrono allo scopo le nozioni di zigote, morula, blastocisti, embrioblasto, e neppure la differenziazione del sistema nervoso con la comparsa della “stria primitiva”, tutte nozioni che si limitano a descrivere i vari stadi di sviluppo cellulare) – prosegue la sentenza – “ciò che appare invece indubbio, a prescindere da ogni valutazione filosofica e religiosa, è che il processo biologico è un continuum che comincia, in condizioni normali, con la fecondazione, e cioè con l’unione del gamete paterno con quello materno (o, meglio, dei due DNA) e procede senza salti di qualità”; in tal senso il grande embriologo C.H. Waddington parlava anche de “la continua emergenza di una forma da stadi precedenti”;
  4. pertanto – conclude la sentenza – “esula dalla biologia la possibilità di dire quando è che un embrione divenga persona (rectius: sia tutelabile in quanto tale) […] e giammai competere, preater legem, ad un provvedimento amministrativo, chiamato solamente a dare attuazione tecnica alla legge, e non ad esprimere opzioni ideologiche, come è quella secondo cui l’embrione non è soggetto di diritto fin dal momento del concepimento

 

… e l’elaborazione del diritto in quanto uso della “recta ractio” nella osservazione dell’esperienza

Rebus sic stantibus, sarà compito dello stesso Legislatore (come lo stesso TAR Lazio precisa) valutare, secondo una discrezionalità che gli è propria, se è quando un embrione sia tutelabile in quanto persona.

Del resto, non bisogna dimenticare che l’elaborazione e la strutturazione del diritto implica, prima di tutto, l’uso della “recta ratio” a partire dal dato dell’esperienza, secondo l’antico brocardo romano per cui lo ius coincide con il “suum cuique tribuere (cioè con il dare a ciascuno ciò che gli è proprio). Perfino Alexis Carrel, Premio Nobel per la Medicina nel 1956, affermava nelle sue Riflessioni sulla condotta di vita che “poca osservazione e molto ragionamento conducono all’errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità”.

Pertanto, se si è leali nell’avvenimento della conoscenza del reale e nella descrizione della sua dinamica naturale (tale che è di tutti i luoghi e di tutti i tempi) – ed una norma è “giuridica, cioè iusta, soltanto se descrive e non contraddice il dinamismo della realtà – non si può non giungere alla conclusione che quando si parla di “concepito” o di “embrione”, inevitabilmente si ha in qualche modo a che fare con la realtà della “persona”. E che questo sia un dato di esperienza che addirittura può risultare indipendente dal cosiddetto progresso scientifico, ce lo conferma il nostro stesso Diritto Civile che, in tema di persona e successioni, si è ispirato a due chiari principi:

  1. Il riconoscimento della tutela giuridica non solo al nascituro ma addirittura al nascituro non concepito. In merito, si pensi alla capacità a succedere prevista dal 1° e dal 3° comma dell’art. 462, secondo i quali sono capaci di succedere tutti coloro che sono nati o concepiti al tempo dell’apertura della successione, e ciò indipendentemente dall’ “età” del feto, proprio perchè “si presume concepito al tempo dell’apertura della successione chi è nato entro i trecento giorni dalla morte della persona della cui successione si tratta”; inoltre, l’art. 643, nell’applicare le disposizione dei due precedenti articoli (641 e 642), inerenti l’amministrazione dell’eredità, statuisce che possono ricevere per testamento i figli di una determinata persona vivente al tempo della morte del testatore, benché non ancora concepiti;
  2. In caso di dubbio sulla esistenza della vita di una persona, si suppone sempre la vita e mai la morte. In realtà, proprio perché questo è una dato dell’esperienza (dopo l’abbattersi dellotsunami nel sud-est asiatico per quanti giorni si sono cercate le persone sepolte dal fango col ragionevole dubbio che fossero ancora vive!) il nostro ordinamento statuisce, ad esempio, l’istituto giuridico della morte presunta (che esige il prolungarsi della morte di una persona per ben dieci anni!) oppure alle stesse regole di accertamento della morte, secondo le quali il seppellimento del cadavere non può avvenire se non dopo un certo periodo di tempo.

 

 

La tutela dell’embrione nelle Linee Guida è coerente ai principi espressi nella Convenzione di Oviedo e nella Costituzione Italiana, nonché nelle risoluzioni del Parlamento Europeo in materia

Come si può ben notare la tutela dell’embrione non è né un scelta per così dire “aprioristica”, né una scelta “ideologica politica di tipo unilaterale”. Proprio perché è necessario in ogni ordinamento giuridico il contemperamento dei diversi valori costituzionali in gioco (tali perché condivisi dalla collettività, in quanto si impongono nella loro oggettività), non può certo disattendersi l’art. 2 della Costituzione che riconosce e garantisce i diritti inviolabili del singolo uomo (evidentemente, non in ultimo il diritto inviolabile alla vita e alla integrità fisica), né l’art. 13, che statuisce l’inviolabilità della libertà personale. E se l’uomo nascesse totalmente dalla biologia di padre e madre (istante breve in cui tutto il flusso di innumerevoli reazioni precedenti producono questo frutto effimero), se l’uomo fosse solo questo, sarebbe realmente, cinicamente ridicola la parola “libertà”, l’espressione “diritto della persona”, la parola stessa “persona”. In un solo caso questo punto del reale, che è l’uomo singolo, è davvero libero da ogni indebito condizionamento, così che niente e nessuno può violare o comprimere il suo originario diritto alla libertà personale: se si comincia a riconoscere (come di fatto “è”) che ogni “io” non deriva soltanto ed esclusivamente dalla tradizione biologica dei suoi antecedenti meccanici, ma è diretto rapporto con l’origine della realtà tutta, che, cioè, è diretto rapporto con l’infinito. D’altra parte, basta un’osservazione attenta della nostra esperienza per giungere alla conclusione reale e ragionevole che l’uomo è costituito da due fattori, di cui uno può definirsi come “materiale (caratterizzato dagli aspetti dellamisurabilità, della divisibilità, della mutevolezza, tant’è che lo stesso corpo umano è destinato a “corrompersi” – o a “de-comporsi” -, etimologicamente parlando, per cui nel complesso di una unità , individuata dalla radice cum-, ogni frammento, ogni parte, ruit, corre via, si separa dalle altre, oppure rumpitur, si rompe, si stacca); e l’altro fattore (in quanto non divisibile, non misurabile o essenzialmente non mutabile né ad esso è applicabile, così come l’esperienza ce lo mostra, l’idea di morte) si potrà definire “spirituale”, proprio perché realtà come l’idea, ilgiudizio, la decisione sono destinate ad attraversare il tempo e lo spazio, fissandosi in una dimensione che ha a che fare solo con l’eterno. Ed è così vero che queste due realtà (quella “materiale” e quella “spirituale”) non si possono ridurre l’una all’altra (altrimenti significherebbe negare la propria esperienza, che invece, con evidenza, ce le presenta diverse) che perfino il nostro Codice Civile all’art. 629, in materia di successioni, statuisce in merito alle cd. “Disposizioni in favore dell’anima”.

Ed è proprio in quest’ottica che va detto che se la sentenza in questione ha un altro merito è certamente quello di aver evidenziato la coerenza del Legislatore nell’aver elaborato queste Linee Guida tenendo conto non solo della Convenzione di Oviedo e dei principi fondamentali della nostra Costituzione, ma anche delle risoluzioni del Parlamento Europeo che hanno definito quei principi in materia che gli stati membri sono stati invitati a rispettare.

 

Le risoluzioni del Parlamento Europeo del 20/9/96 e del 7/9/00

In materia il Parlamento Europeo si è espresso già da alcuni anni con due risoluzioni, sollecitando i singoli stati membri i rispettare i principi in esse stabiliti. Più precisamente nella risoluzione del 1996, sulla tutela dei diritti umani e sulla dignità dell’essere umano in relazione alle applicazioni biologiche e mediche, è stato espressamente stabilito:

  • il divieto di ricerca distruttiva sull’embrione umano e di produzione di embrioni umani a fine di ricerca (cfr. art. 13, L. 40/04);
  • il divieto di impianto nella donna, in caso di fecondazione artificiale, di più di tre embrioni nel corso di un ciclo (cfr. art. 14, co. 2, L. 40/04);
  • il divieto di conservazione criogenica di embrioni se non a titolo eccezionale e per ragioni mediche nel caso in cui l’impianto previsto non possa essere realizzato nel corso di un ciclo (cfr. art. 14, co. 3, L. 40/04).

 

Successivamente, con la risoluzione del 2000 in materia di clonazione umana, il Parlamento Europeo:

  • ha sollecitato i singoli Stati membri a che le tecniche di fecondazione artificiale non generino un numero di embrioni superfluo;
  • ha individuato le tecniche che implicano l’estrazione di cellule staminali da adulti o dal cordone ombelicale come metodo alternativo alla clonazione embrionale per la cura di malattie gravi, sollecitando “i massimi sforzi a livello politico, legislativo, scientifico ed economico a favore di terapie che impiegano cellule staminali derivate da soggetti adulti”.

 

La Convenzione di Oviedo (ratificata dall’Italia con L. 28 marzo 2001, n. 145)

Circa la Convenzione di Oviedo sui diritti dell’uomo nei confronti della biologia e della medicina, va subito precisato che la stessa all’art. 2 ha statuito che “l’interesse e il bene dell’essere umano devono prevalere sul solo interesse della società e della scienza”, e successivamente, ha posto i seguenti divieti:

  • il divieto di modificazione del menoma dei discendenti (art. 13);
  • il divieto di utilizzo di tecniche per la selezione del sesso del nascituro (art. 14);
  • il divieto di produzione di embrioni solo per ricerca (art. 18).

Pertanto, non si comprende assolutamente la posizione del ricorrente laddove lamenta la violazione della Convenzione di Oviedo né di chi vuol contestare la validità della sentenza del TAR Lazio in casu. Invece, il Giudicante, proprio nel disattendere la censura della Warm – World Association Reproductive Medicine (punto n. 6 del ricorso), ha giustamente precisato che tale Convenzione “non prevede regole sulla procreazione assistita, ma si limita a vietare la formazione di embrioni a scopo di ricerca, ed a stabilire che, ove uno Stato ammetta la ricerca sugli embrioni, questi debbano ricevere una tutela appropriata”.

 

Gli artt. 31 e 32 della Costituzione

Un’ulteriore approfondimento è doveroso fare in merito alla presunta violazione degli artt. 32 e 33 del Costituzione, evidenziata da parte ricorrente al punto n. 6.

  • La sentenza precisa che non vi è alcuna lesione dei principi della tutela della ricerca scientifica e della evoluzione della scienza medica laddove nel caso di specie “la scienza medica proietta la sua luce in un contesto che si pone al crocevia fra due diritti fondamentali: quello di essere curato efficacemente, e quello dell’essere rispettato nella propria integrità e dignità di essere umano. Nel caso di specie non sembra revocabile in dubbio che a tutela dell’embrione il legislatore possa intervenire a limitare la pratica medica, tanto più ove la stessa non si basi su adeguate evidenze scientifiche e sperimentali”. E, poco prima, la sentenza fa presente, in merito alla diagnosi preimpianto, che nella pratica risulta quale “circostanza incontestata” ciò che la stessa Avvocatura dello Stato ha confermato nella seconda memoria difensiva (p. 11), e cioè che allo stato attuale “non esistono ancora terapie geniche che permettano di curare un embrione malato, con possibile incidenza […] sullo stato di salute del medesimo; di conseguenza la diagnosi preimpianto invasiva non potrebbe che concernere le sole qualità genetiche dello stesso embrione”.
  • Riteniamo che, invece, vi sia piena applicazione degli artt. 2 e 3 della Costituzione dal momento in cui la sentenza afferma l’assoluta inesistenza di un fondamento iuris et de iurealla pretesa ad avere un figlio sano. Infatti, la relazione di filiazione non solo è una relazione biologica, ma è anche una relazione biografica (si prende coscienza di sé nel rapporto “con”, nell’essere figli di X e di Y), ed, insieme, è una relazione personale, proprio perchè il figlio è voluto è affermato per se stesso in quanto “dono”: un figlio non può mai essere inteso come un “oggetto” del desiderio da avere ad ogni costo e secondo determinate caratteristiche; nessun uomo può vantare il diritto all’esistenza di un altro uomo e secondo determinate modalità, altrimenti questi sarebbe sottoposto su un piano di inferiorità valoriale e giuridica rispetto a colui (o colei) che ne vanta il diritto. E quando poi la sentenza precisa: “anche ad ammettersi, per mera ipotesi, l’esistenza di un siffatto diritto della personalità, non può tuttavia sostenersi, già sul piano della ragionevolezza, che il metodo (artificiale) della procreazione assistita, il cui fine è solamente quello di favorire la soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità od infertilità umane, possa offrire delle opportunità maggiori del metodo naturale”, non possiamo che aggiungere che semmai la procreazione medicalmente assistita offre minori possibilità del metodo naturale, tenuto conto del fatto che nella procreazione naturale quella unità originaria tra uomo e donna, tra padre e madre, viene separata in quanto l’atto sessuale deve essere necessariamente dissociato dall’atto procreatore (quanto più difficilmente quel figlio potrà riconoscersi in una “unità” che originariamente gli spettava, che gli è propria, ma che gli è mancata e, nel contempo, quanto più difficilmente quello stesso figlio potrà essere, per chi lo genera, segno permanente dell’unione tra uomo e donna, sintesi viva e indissolubile della rispettiva dimensione paterna e materna!) e l’origine e il destino della vita di fatto sono manipolati e dominati dalla “tecnica”.
  • Non vi è nemmeno violazione dell’art. 32 dal momento in cui le Linee Guida non hanno statuito – a dire del ricorrente – un’elencazione delle condizioni morbose della donna, tali da consentire la crioconservazione dell’embrione. In vero la sentenza precisa che le Linee Guida hanno effettuato “un ragionevole bilanciamento […] tra la tutela dell’embrione e la tutela della salute della donna, compatibile con il riconoscimento anche all’embrione della soggettività giuridica”. Proprio per tale motivo, ogni indagine genetica preimpianto (caratterizzata dal prelievo di una cellula per esaminarla) è consentita solamente per finalità terapeutiche e diagnostiche, volte alla tutela della salute ed allo sviluppo del concepito, qualora non siano possibili metodologie alternative: le Linee Guida, di conseguenza, prevedono soltanto la cd. “indagine osservazionale”, cioè l’esame al microscopio di eventuali anomalie di sviluppo dell’embrione creato in vitro, vietando così la diagnosi preimpianto a finalità eugenetica.

Da quanto detto finora, non si può negare che il richiamo ai principi di pari dignità costituzionale sia stato ampiamente sviluppato in sentenza, proprio perché si è tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco, e non di tutti i valori costituzionali ma poi riconosciuti di fatto soltanto a determinate categorie di persone e non ad altre, così come chiedeva di procedere la Warm (proprio dall’esposizione in fatto che si evince in decisione), in violazione dell’innegabile ed ancora attualissimo principio giuridico di tradizione ulpianea secondo cui iustitia constans et perpetua voluntas est ius suum cuique tribuendi.

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