TRA GRAZIA ED AMNISTIA

L’avvenuta pubblicazione nei giorni scorsi sul Corriere della Sera di un editoriale a firma del nuovo direttore, ha riaperto il mai sopito dibattito sulla concessione della grazia ad Adriano Sofri.
Come era facilmente da presumersi, a seguito di tale articolo, della raccolta delle firme di più di trecento parlamentari a favore di tale proposta, e del rifiuto del Ministro Guardasigilli di proporre tale istanza al Presidente della Repubblica, è scoppiato l’ennesimo conflitto tra maggioranza ed opposizione (e tra le file della stessa maggioranza) sia nei riguardi di un provvedimento ad personam a favore dell’ex rappresentante di Lotta Continua sia, più in generale, di un atto di clemenza a favore di più detenuti.
Ci asteniamo dal commentare le innumerevoli opinioni politicamente orientate espresse in merito.
Tuttavia, a differenze di molte autorevoli voci, concordando con il direttore Folli, riteniamo che, al di là, delle ragioni, politiche o non, manifestate dal Ministro Castelli per il diniego di tale provvedimento, un punto del ragionamento esposto da questi debba essere valorizzato: occorre un gesto di pacificazione sociale.
È necessario per il bene del popolo italiano, e per una auspicabile serena comunanza di interessi sociali, che sia detta una parola definitiva non solo sulla terribile esperienza degli anni di piombo, ma anche sull’esperienza della cosiddetta “tangentopoli”, i cui ritardati strascichi giudiziari continuano ad ammorbare il quotidiano dibattito politico e l’amministrazione della giustizia penale.
Riteniamo interessante riflettere sulle parole di Carl Schmitt, il noto pensatore tedesco stigmatizzato per i suoi ambigui rapporti con il regime nazionalsocialista, che dedicando gli ultimi scritti della sua produzione teoretica anche ai problemi della pacificazione sociale e dell’amnistia – temi centrali nel difficile clima di divisione sociale del dopoguerra tedesco, ma anche italiano di allora e di oggi – così si esprimeva: “In un certo senso (senso tremendo!) la guerra civile è una guerra giusta, perché entrambi gli avversari siedono sul proprio diritto come su una preda. Ciascuno compie la sua vendetta in nome del diritto. Com’è possibile passare da questo stato di guerra fredda alla pace? Come si può spezzare il circolo chiuso di questo mortale voler aver ragione? Come si può mettere fine a questa guerra civile “fredda”? Il comunista ha una risposta molto semplice: la distruzione dell’altro…[…]…Questa è una delle possibilità di mettere fine ad una guerra civile; possibilità inumana. Non possiamo credere che questo sia il vero mezzo, la soluzione per far cessare una guerra civile. Ma allora vi è solo un altro mezzo, e, se non troviamo in noi la forza e l’onestà di farne uso, vincerà il concetto del distruggere. Questo altro mezzo è appunto la forza dell’oblio, la facoltà di dimenticare. Tutte le guerre civili della storia che non sono finite con la totale distruzione degli avversari sono terminate con un’amnistia. [….]. Amnistia significa dunque assai più che un condono di pena o un semplice arresto della macchina della giustizia. […] Dopo che tante parole, istituzioni e concetti sono stati falsati e avvelenati dovremmo fare in modo da non dimenticare il significato originario della parola pace. L’amnistia è dunque più di uno sgravio dell’apparato persecutore dello Stato. E’ un atto reciproco di dimenticanza. Non è una grazia e neppure un’elemosina. Chi riceve una amnistia deve anche darla e chi la dà deve anche sapere che la riceve. Manteniamo intatto in noi almeno questo ultimo resto di diritto divino, perché l’unico mezzo per chiudere in maniera umana una guerra civile “fredda” non cada del tutto in dimenticanza” (Carl Schmitt, L’Unità del mondo ed altri saggi, Antonio Pellicani Editore, 2003).
Resta di assoluta attualità il giudizio espresso dal Santo Padre in occasione del Giubileo del 2000: “..non c’è pace senza giustizia, ma non esiste giustizia senza perdono..”.

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