La giustizia e le ingiustizie – Federico Stella

24 Novembre 2006

 

Federico Stella

La giustizia e le ingiustizie

Il Mulino 2006, pagg. 247

 

Esce postumo per le edizioni de il Mulino “La giustizia e le ingiustizie”, l’ultimo libro di Federico Stella, noto avvocato penalista e docente di Diritto Penale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.

 

L’autore prende le mosse dalla considerazione per cui le riflessioni dei filosofi non potranno mai condurre ad una chiara definizione di giustizia poiché, come già rilevava all’inizio del secolo scorso Emile Durkheim, le speculazioni astratte dei filosofi finiscono con l’essere costruite su asserzioni ideali ed ipotetiche che nulla hanno a che fare con il modo reale.

 

Seguendo il common sense proprio dell’etica popolare, si dovrà dunque operare un mutamento di prospettiva secondo cui l’unica fonte dell’idea di giustizia dovrà fondarsi sull’esperienza dell’ingiustizia e del male che ne costituisce la base.

 

In questa prospettiva l’ingiustizia si pone quale fatto empirico, tangibile e sperimentato dai singoli individui, di fronte a cui si apre l’idea di giustizia intesa come visione di salvezza, di recupero delle perdite, di premio per le sofferenze patite, in sintesi una riparazione delle stato di ingiustizia subito.

 

Ripercorrendo gli eventi terribili occorsi nell’ultimo secolo, dall’olocausto alla strage dei kulaki, passando dalle vittime dei khmer rossi ai massacri dell’esercito popolare maoista in Cina, riecheggia continuamente il terribile ritornello: dove era la giustizia mentre il male accadeva, come è possibile riparare l’ineluttabile definitività di tutti i milioni di morti innocenti?

 

Quale può essere la risposta di giustizia a quanto accaduto? E soprattutto quale risposta può definirsi compiuta nel momento in cui l’irreparabile è gia stato commesso?

 

Ed ancora: il carcere quale risposta individuata dai paesi cosiddetti a democrazia evoluta al problema della giustizia, lungi dal realizzare un’astratta idea di risocializzazione del condannato, non si manifesta invece quale strumento di annullamento delle persone umane ivi internate?

 

Di fronte a tale impressionante descrizione, quale risposta può e deve essere data?

 

La risposta di Stella a tale cruciale quesito si fonda su due pilastri: il primo, recuperando il pensiero di Hannah Arendt, si fonda su una rinascita della capacità di pensare “che renda possibile il raggiungimento della coscienza di sé e la scoperta della propria ombra”; secondo l’autore ciò si declina operativamente, sulla scorta del pensiero di Levinas, nel cd. riconoscimento dell’Altro come soggetto, al mio pari, degno di rispetto ed al quale deve essere riconosciuta la dignità umana.

 

Tuttavia ciò non basta, per Stella infatti, non c’è dubbio che in astratto, la giustizia possa essere intesa come vertice dell’impulso e della preoccupazione dell’io morale verso il volto dell’Altro, e non vi sono dubbi che, in casi eccezionali, ciò possa avvenire ma, come purtroppo l’esperienza insegna, le persone che attingono alla profondità del bene sono soverchiate in modo schiacciante dal numero delle persone che ciò non fanno, soccombendo al proprio male.

 

Di più, un ulteriore limite al pensiero di Levinas si determina nei casi in cui il comandamento iscritto nel volto dell’Altro sia negativo e non positivo, quale è qui l’atteggiamento che deve assumere l’io morale? Non fornendo risposta a tale quesito anche Levinas lascia aperto e senza soluzione il problema della giustizia.

 

Stella propone di colmare tale lacuna del pensiero del filosofo lituano mediante la cd. “giustizia del primo passo”.

 

I fondamenti di questo secondo pilastro del Suo ragionare si basano su di una idea, comune a tutte le religioni del mondo, della giustizia intesa come principio per cui non deve essere fatto all’Altro ciò che non è gradito a se stessi.

 

Sulle basi di questa regola fondamentale, per Stella si deve ulteriormente analizzare lo specifico del pensiero cristiano: se il rapporto con l’Altro è l’esperienza fondamentale dell’essere, “essa non può arricchirsi dell’idea che al vertice degli impulsi dell’io morale vi deve essere la preoccupazione anche per il volto dell’Altro che si sia macchiato dei più terrificanti misfatti”.

 

In tale prospettiva l’assunzione di responsabilità verso l’Altro fa coincidere la giustizia con il primo passo che l’io morale compie verso quest’Altro.

 

Questo, a detta dell’autore, è il modello di giustizia del primo passo: il modello di giustizia scolpito dalla Bibbia.

 

Stella argomenta come la giustizia di Dio sin dall’Antico Testamento si ponga non quale momento vendicativo ma come momento di misericordia di Dio verso l’uomo. Infatti, riprendendo il pensiero di Wiesnet,: “il principio del taglione dell’Antico Testamento non costituisce affatto un invito alla retribuzione, bensì rappresenta fin dall’inizio un criterio limitativo alla vendetta privata…il significato del taglione non sta perciò nella retribuzione in senso kantiano… della giustizia biblica non si può in alcun modo abusare nella prassi penale come fattore legittimante la proscrizione del colpevole..il giudizio di Dio non annienta ma solleva”.

 

In questa ottica è sempre Dio che assume l’iniziativa e, anche di fronte a chi si trova in colpa, Jahvé non ritira il suo originario sì di accoglienza e protezione, la sua parola di giudizio e una parola di salvezza.

 

Il Giudizio di Dio, dunque, non appare come punizione retributiva ma come strumento pedagogico, così come mirabilmente testimoniato dalla vita e dall’insegnamento di Gesù nel Nuovo Testamento.

 

Prendendo le mosse dall’amara constatazione che l’idea di giustizia umana non s’incarna ancora, ai nostri giorni, nella giustizia divina del primo passo, nell’ultimo capitolo del libro, Stella evidenzia come, paradossalmente, Israele sia l’unico esempio al mondo, di una ricerca vera e propria di giustizia.

 

Il modello preso ad esempio da Stella viene da lui denominato “modello Barak” (dal nome dell’ex presidente della Corte Suprema) si caratterizza come dotato della capacità di protezione assoluta dei diritti individuali quand’anche essi siano invocati da persone sospettate di atti terroristici nei confronti dello Stato d’Israele.

 

Israele, infatti, a differenza ad esempio degli Stati Uniti, ha deciso, pur affrontando dalla sua nascita il pericolo costante del terrorismo, di non aderire alla massima di Cicerone secondo cui “inter arma silent leges” in quanto, pur in presenza di un conflitto armato, il destino di un essere umano – quale esso sia – non può rimanere in sospeso.

 

La protezione assoluta dei diritti umani, anche dei “nemici dello stato” si avvicina dunque al modello del primo passo sopra individuato anche se questo, nella pratica, inevitabilmente può configgere con la contrapposta (e legittima) necessità del potere esecutivo e legislativo di tutelare la sicurezza dei cittadini.

 

Tale difficile equilibrio deve comunque rimanere l’obiettivo di uno stato di diritto e della democrazia in generale, a tal fine è utile fare memoria della nostra tradizione, così come ben esemplificato in un aneddoto storico riferito proprio dal Giudice Barak:

si dice che vi fosse una grossa disputa tra Giacomo I e il giudice Coke. La questione era se il re potesse prendere in mano la giustizia personalmente e prendere da sé le decisioni. All’inizio, il giudice Coke tentò di persuaderlo che l’attività giudiziaria richiedeva una esperienza che il re non aveva, ma il re non era convinto, Allora il giudice Coke si alzò e disse : “Quod rex non debet sub nomine, sed sub Deo et lege” Il re non sottostà agli uomini, ma a Dio e alla legge. Così’ sia”.

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