L’avvocatura ad un bivio

22 Settembre 2006

 

Relazione del Presidente della Libera Associazione Forense al “Convegno Nazionale Forense” – Roma, 21/24 settembre 2006 –

La situazione attuale non è certamente delle migliori: da una parte c’è un’avvocatura che non è stata fino ad ora in grado di contribuire al proprio rinnovamento, spesso troppo impegnata a discutere su chi e come debba rappresentarla; dall’altra c’è un Governo che, con il dichiarato intento di distruggere rendite e corporativismi, ha introdotto misure che vanno ad incidere sulla concezione della professione senza però affrontarne i reali problemi.

Il decreto Bersani, infatti, ha rappresentato un grave errore in primo luogo per il modo in cui è stato approvato e convertito in legge e cioè senza alcun confronto con l’avvocatura e le altre professioni: l’aver evitato il dialogo conferma il sospetto di una scarsa considerazione, se non addirittura di un atteggiamento punitivo, verso alcune libere professioni, tra cui la nostra che, viceversa, ha un ruolo rilevante nella società, in grado di generare ricchezza e preposta a tutelare diritti pubblici fondamentali, quali la difesa in giudizio. Inoltre, il decreto Bersani è stato presentato come una misura per scardinare un sistema che ostacola la libera concorrenza. Dietro a questo seducente “slogan”, si nasconde il tentativo di introdurre un sistema simile a quello anglosassone (a beneficio di chi?), lontano da quello della nostra tradizione che ha comunque garantito in tutti questi anni un equilibrio tra l’esigenza di una remunerazione adeguata per il professionista e la possibilità per il cliente di ottenere qualificati servizi legali a prezzi ragionevoli. Risulta, tuttavia, difficile credere che l’abolizione delle tariffe minime, del divieto di farsi pubblicità e del patto quota lite siano effettivamente misure in grado di migliorare i servizi e di garantire benefici ai cittadini utenti, soprattutto in termini di competenze e di serietà del professionista. Basta osservare quei Paesi in cui tali misure sono già in vigore: certamente non vengono resi servizi legali migliori a prezzi inferiori in Inghilterra o negli Stati Uniti, anzi, almeno per quanto riguarda i prezzi, è esattamente il contrario. Né si può seriamente sostenere che con l’introduzione di tali misure i potenziali clienti siano messi in grado di orientarsi e di scegliere l’avvocato capace di fornirgli la migliore assistenza a prezzi più bassi. Ben sappiamo che il consumatore non ha una sufficiente conoscenza della legge e del sistema giudiziario per poter fare una comparazione effettiva e non cadere facilmente in errore sia nella scelta dell’avvocato, sia nella valutazione dell’assistenza ricevuta. Per di più, la maggioranza dei soggetti che si rivolgono all’avvocato, non è costituita dalle grandi imprese (come sembrerebbe credere il Governo), bensì da singoli individui o piccole aziende che non si avvalgono dei servizi legali in modo continuativo, ma spesso sporadico e nei diversi campi del diritto. Anche dopo la pretesa liberalizzazione i clienti saranno “costretti” a fidarsi delle informazioni fornite dagli avvocati e dipenderanno dalle stesse. E’ quindi di tutta evidenza che le misure del decreto Bersani non sono assolutamente atte a raggiungere lo scopo dichiarato (e cioè “assicurare agli utenti un’effettiva facoltà di scelta nell’esercizio dei propri diritti e di comparazione delle prestazioni offerte sul mercato”), mentre riteniamo che si debba puntare sulla preparazione, serietà e professionalità degli avvocati per tentare di ottenere una riqualificazione della categoria al servizio del bene comune.

Il decreto Bersani, tuttavia, può essere l’occasione affinché l’avvocatura e la politica affrontino finalmente e decisamente i nodi cruciali dell’accesso alla professione, della formazione permanente e dell’effettivo controllo disciplinare dell’operato dei professionisti. Continuare sulla via dell’astensione dalle udienze ci sembra francamente inutile se non dannoso. Lo sciopero è, innanzitutto, uno strumento non adeguato e poco corrispondente al ruolo di pubblica utilità dell’avvocato. Inoltre, è un mezzo di fatto poco efficace (basta vedere l’esito di quello indetto a luglio!) e questo ancor di più oggi che il decreto è stato ormai convertito in legge. Inoltre, tali iniziative non fanno altro che creare un’inutile contrapposizione che non aiuta ad affrontare i citati problemi fondamentali della nostra professione, bensì trasmette un’immagine distorta dell’avvocatura che rischia di apparire come una corporazione chiusa, restia a qualsiasi cambiamento pur di mantenere i suoi presunti “privilegi” (si vedano gli articoli di stampa apparsi su tutti i principali quotidiani nazionali dopo la proclamazione dello sciopero).

Francamente lo “svilimento” della nostra professione, prima ancora che dalle norme del decreto Bersani, ci pare nasca da un affievolimento della coscienza del ruolo dell’avvocato nella società (prevale sempre più l’interesse particolare rispetto al bene comune) e da un’apertura indiscriminata e demagogica dell’accesso alla professione avvenuta in questi ultimi anni, anche per colpa dell’avvocatura stessa.
Tale situazione, ormai fuori controllo, ha contribuito a determinare:

  1. una diffusa dequalificazione dell’avvocato (poca preparazione, poco aggiornamento e poca serietà deontologica);
  2. la scomparsa del rapporto maestro/allievo, tra il professionista avviato e il praticante, rapporto che ha sempre giocato un ruolo fondamentale nella formazione di chi si affacciava alla professione;
  3. un’incapacità degli Ordini di esercitare un effettivo controllo sull’osservanza dei doveri professionali e sulla pratica;
  4. un “blocco” di fatto dei giovani che si trovano la strada ingolfata da decine di migliaia di avvocati (non sempre meritevoli e capaci) e che quindi non hanno prospettive (se non quella di svolgere un ruolo “impiegatizio” negli studi di una certa dimensione nei principali Fori).

 

Di fronte a questa situazione ci sembra rilevante, innanzitutto, che si recuperi il valore dell’educazione, perché è attraverso l’educazione che si costruisce la persona e quindi l’avvocatura e la società. Non è soltanto un problema di istruzione: occorrono maestri che introducano i giovani alla professione e al suo significato. Non vi è riforma che possa sostituire l’importanza del rapporto professionale ed umano tra il maestro e il giovane che si affaccia a questa professione.

E’ necessario inoltre che si arrivi in tempi stretti alla riforma della legge professionale!

A tal proposito fondamentale è la riforma dell’accesso alla professione: condivisibile al riguardo è l’impostazione adottata dall’ipotesi di testo di riforma proposto dall’OUA.
Da sempre la Libera Associazione Forense ritiene indispensabile che venga garantito un periodo di formazione costituito dallo svolgimento della pratica e dalla frequenza di corsi di formazione (con borse di studio per i meno abbienti) e che venga operata una selezione prima di questo periodo di formazione, rendendo l’esame di abilitazione una semplice verifica del percorso formativo. Non è infatti serio operare una selezione solo alla fine di tale percorso, creando a tutti l’illusione di poter accedere alla professione e nello stesso tempo ritardando la ricerca di possibili sbocchi lavorativi alternativi che, con il passare degli anni, diventa sempre più difficile se non impossibile. Ben venga quindi l’introduzione di un esame di preselezione per l’accesso a corsi di formazione obbligatori (anche se tale verifica sarebbe auspicabile che avvenisse attraverso test oggettivi di tipo informatico al fine di garantire l’omogeneità dei risultati a livello nazionale e una reale selezione, piuttosto che mediante colloqui svolti da commissioni locali).
La frequenza dei corsi obbligatori che consenta al praticante di svolgere contemporaneamente un’effettiva pratica ci pare risponda all’evidenza che non basta essere dei buoni giuristi per fare gli avvocati, ma che occorrono anche altre attitudini che non si acquisiscono dai testi giuridici ma “sul campo” con l’aiuto dei maestri.

L’obbligatorietà di corrispondere un equo compenso al praticante potrebbe, inoltre, contribuire ad una sua maggiore valorizzazione all’interno dello studio e aiutare l’avvocato a considerare il tirocinante come una risorsa su cui investire.

Oltre alla riforma dell’accesso alla professione, altrettanto importante ci sembra l’introduzione dell’obbligo di formazione permanente per gli avvocati (obbligo già introdotto da anni da altre categorie di professionisti).

I Consigli degli Ordini, infine, dovrebbero – in una revisione critica del loro operato – immaginare forme idonee a garantire un’intensificazione del controllo sull’osservanza dei doveri professionali da parte dei loro iscritti.

Se non si arriverà rapidamente ad una riforma della professione che garantisca una maggiore qualificazione degli avvocati, anche attraverso una riduzione dei numeri in continua crescita esponenziale, l’alternativa è una libero mercato “di fatto” dell’avvocatura. Si sostiene, da parte di coloro che sono favorevoli a questa scelta che, come accade per tutte le attività imprenditoriali, sarà il mercato a fare la selezione.
Siamo, invece, convinti – ritenendoci imprenditori “sui generis” per la delicatezza degli interessi che tuteliamo – che tale alternativa comporterebbe una “selezione” sulla pelle dei cittadini che rischieranno, senza avere la possibilità di rendersene conto, di imbattersi in avvocati non in grado di assicurare loro un adeguato livello di competenza e pronti a lucrare sul loro bisogno.

Non si può perdere questa occasione! Urge una riforma della nostra professione nell’interesse della giustizia, dei cittadini e degli stessi avvocati (soprattutto dei più giovani): è, peraltro la risposta più credibile al decreto Bersani, anziché limitarsi alla difesa dello “status quo”.

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