Se fuggiamo dal Dolore

17 Settembre 2004

Volentieri pubblichiamo l’editoriale dal titolo “SE FUGGIAMO DAL DOLORE” di E. Galli Della Loggia apparso su “Il Corriere della Sera” di venerdì 17.9.2004.

«È forse un peccato volere un figlio sano?». Questo grido dal cuore a cui ha dato voce qualche giorno fa Miriam Mafai riassume perfettamente, sono sicuro, il sentimento della grande maggioranza degli italiani di fronte all’intervento a base di cellule staminali tratte dal cordone ombelicale di due suoi fratellini concepiti all’uopo, compiuto al San Matteo di Pavia per guarire Luca, il bambino affetto da talassemia, figlio di due genitori turchi residenti nel nostro Paese. Poco conta davanti a quella semplice domanda il fatto che per ottenere il risultato di cui sopra è stato necessario procedere ad una selezione genetica degli embrioni dei potenziali fratellini di Luca, che inevitabilmente riecheggia, almeno nel principio, la prassi eugenetica che fu del nazionalsocialismo e, meno spietatamente ma fino a tempi non lontani, di alcune legislazioni europee e americane.

«È forse un peccato volere un figlio sano?». Chi mai può rispondere di sì? E dunque sembra ovvio che, una volta accettata la diagnosi genetica prenatale al fine di guarire un soggetto terzo, essa sarà inevitabilmente spesa al fine di impedire una malattia del nascituro stesso: in fondo dov’è la differenza? Non è meglio, per quanto possibile, che tutti abbiano bambini sani e che promettono di vivere a lungo? Ed è ugualmente ovvio che quando tutto è riducibile (e ridotto) a una domanda simile, anche l’esito dell’eventuale referendum per cancellare o modificare la legge sulla fecondazione assistita, per cui in questi giorni si stanno raccogliendo le firme, può considerarsi scontato. Chi può dubitarne? Anche qui vincerà a mani basse il partito del non divieto, o meglio dei minori divieti possibili alla speranza salutista.

Non sta scritto da nessuna parte, però, che la discussione su che cosa una società debba decidere in una materia di portata immensa come è questa della diagnosi genetica e della fecondazione artificiale, della vita e della morte, debba esaurirsi nel problema del permettere e del vietare. Il codice penale non è l’alfa e l’omega dell’etica, e la bussola della storia umana non è, per fortuna, custodita nelle aule dei tribunali o dei parlamenti.

Sarà allora giusto (e si spera consentito) riflettere in una prospettiva diversa da quella dei diritti e delle pene che ci assedia quotidianamente. Osservare, per esempio, che dietro il desiderio di far nascere per quanto possibile solo bambini sani e che promettono di vivere a lungo c’è l’idea e il sentire sempre più diffusi nella nostra società che il dolore fisico e morale, e ciò che lo provoca, la malattia, il male, sono qualcosa di materialmente ma soprattutto di psicologicamente insopportabile, qualcosa da scongiurare e da fuggire a tutti i costi. Non solo: qualcosa che alla fine è possibile espungere, cancellare dall’orizzonte umano. Magari a costo di sopprimere l’individuo umano stesso, come nel caso dell’eutanasia, la cui legalizzazione già si annuncia qua e là sotto varie forme.

Proprio l’esempio dell’eutanasia sembra indicare che ormai nelle nostre società la morte può essere accettata, paradossalmente, solo per essere negata. Di fatto essa è già stata espulsa dalla domesticità e dalla esperienza quotidiane, venendo relegata nell’unico ambiente consentito, quello dell’ospedale. Adesso siamo tentati di farla finita, oltre che con la morte, anche con tutto ciò che sfigura e affligge il corpo.

In realtà, dietro l’obbligatoria benevolenza verso «non udenti», «non vedenti», «portatori di handicap» sempre meno ci riescono tollerabili l’imperfezione fisica, le infermità immedicabili, le mille imperfezioni che dalla notte dei tempi ci ricordano la nostra precarietà. Non ne vogliamo più sapere di questa parte in ombra, misteriosa e dolente della nostra natura; e dal momento che la scienza sembra permettercelo, da quello stesso istante non riusciamo più ad accettarla e a convivere con essa.

Inutile dire come sul piano antropologico questo rifiuto ratifichi e amplifichi a dismisura l’abissale frattura culturale già oggi così evidente tra il mondo occidentale e tutti i popoli del Pianeta. Di fronte a una umanità bianca che si avventura dietro il sogno di un corpo affidato fin dal concepimento alla tutela della scienza, si levano, in un’altra metà del mondo, folle di corpi, il cui destino resta invece in balìa della più cieca casualità, segnati dall’imperfezione e dal male. La differenza di reddito tra noi «e gli altri» tende a tramutarsi così in una radicale diversità della stessa esperienza della fisicità umana.

Il che dà l’idea dell’altrettanto abissale frattura che l’avvento come pratica di massa della diagnosi genetica degli embrioni è sul punto di rappresentare rispetto a tutto quanto il nostro stesso passato storico. Interi universi di pensieri e di sentimenti, interi mondi morali e artistici sono destinati fatalmente alla insignificanza e, in prospettiva, alla liquidazione. Primo fra essi, naturalmente, il mondo spirituale cristiano (e, oserei dire, quello di qualunque religione) con la sua idea della preziosità irripetibile di ogni soma umano e del misterioso legame mimetico che lo lega al Dio creatore: fonte di quel retaggio di misericordia e di amore per tutti gli esseri che costituisce la più degna e disperata utopia, alla base di tutte le altre utopie universalistiche di cui da venti secoli si nutre l’Occidente.

Alla domanda di Miriam Mafai da cui sono partito si può dunque rispondere con un’altra domanda. No, certo che non è un peccato volere un figlio sano. Ma nel nostro mondo imperfetto vige una regola ferrea: tutto ha un prezzo, e in genere tanto più alto quanto più grande è il vantaggio che si ottiene. Ebbene: qual è nel nostro caso questo prezzo? Non è un gesto né di prepotenza né di arroganza chiedere di saperlo prima di decidere se è giusto pagarlo.

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